Lo studioso Daniel Everett è riuscito a comunicare con i Pirahã, nativi dell’Amazzonia. Il suo metodo, dice, funzionerebbe con gli extraterrestri. A patto d’incontrarli
Sarà una remota tribù amazzonica incapace di contare a fornirci la chiave per comunicare con gli alieni, se mai dovessimo incontrarli. Ne è convinto l’etnolinguista americano Daniel Everett, che in un articolo recentemente pubblicato su Scientific American spiega come la sua trentennale esperienza di studio del popolo Pirahã, una tribù di cacciatori-raccoglitori situata nel Brasile nordoccidentale, si possa applicare per risolvere le difficoltà d’interazione in un’eventuale incontro con gli extraterrestri.
Il metodo messo a punto da Everett, docente alla Bentley University nel Massachusetts, si basa sul presupposto che si può imparare un nuovo idioma senza usare nessun’altra lingua se non quella conosciuta dalla persona con cui vogliamo comunicare. Con l’aiuto di oggetti e gesti, lo studioso americano ha dimostrato che si possono carpire parole, espressioni e frasi di un sistema di comunicazione in precedenza sconosciuto anche nel caso di popolazioni interamente monolingue e culturalmente isolate. È la situazione in cui si è trovato Everett fin dal 1977, quando per la prima volta, lungo le rive del fiume Maici, uno stretto e sinuoso affluente del Rio delle Amazzoni, incontrò i membri di una comunità indios il cui modo di esprimersi è così peculiare da mettere in discussione le teorie linguistiche largamente prevalenti di Noam Chomsky.
Come documentato dai lavori di Everett, questa tribù non ha miti, né storia e il loro linguaggio può essere fischiato, cantato o mormorato, oltre che parlato. Non ci sono parole per indicare destra o sinistra e c’è un’assenza quasi completa di termini e strutture per indicare i numeri. L’aspetto davvero sorprendente per gli specialisti è però la mancanza delle cosiddette costruzioni ricorsive, la pratica linguistica di inserire delle frasi all’interno di altre, alla base della teorie di Chomsky secondo cui esistono “geni grammaticali” condivisi da tutte lingue.
I Pirahã non sono in grado di estendere ad esempio la frase «Mario è partito» in «Mario ha salutato gli amici ed è partito». Questa incapacità mette in discussione che le caratteristiche comuni a più idiomi siano riconducibili ai principi della “grammatica universale” formulata da Chomsky. Le lingue, in altre parole, potrebbero non essere determinate dalla biologia, come vuole il celebre studioso statunitense, ma dalla cultura.
Quali sono allora le caratteristiche del linguaggio davvero comuni a tutti gli esseri umani, sulla cui natura specifica come abbiamo visto le visioni possono essere differenti, ma sulla cui esistenza nessuno nutre dubbi? Per i linguisti si tratta di un punto fondamentale anche per riuscire eventualmente a comunicare con gli alieni, situazione che potrebbe non essere troppo dissimile da quella incontrata da Everett con i Pirahã.
Lo psicologo di Harvard Jesse Snedeker, esperto di linguaggio infantile, sostiene sempre su Scientific American che «è possibile che ci sia un unico modo con cui le lingue possano funzionare. In tal caso, gli extraterrestri potrebbero essersi evoluti per risolvere il problema del linguaggio nello stesso modo in cui abbiamo fatto noi esseri umani». Se capissimo in cosa consiste questo tratto universale, «la comunicazione interplanetaria sarebbe possibile».
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